Fuori dal Mondiale brasiliano. A testa bassa, costretti alla resa. Questo il triste verdetto al termine della terza gara degli Azzurri. L’avventura della Nazionale del dimissionario Prandelli (seguito da Abete) si è mestamente conclusa a Natal al cospetto di un Uruguay non certo trascendentale. Novanta (cinque) minuti stucchevoli, fotocopia della gara precedente contro il Costarica. Curioso che l’addio si sia consumato nel giorno del dramma di Ciro Esposito, le cui condizioni sono peggiorate proprio alla vigilia della sfida. Una giornata nera per il nostro calcio, interamente listato a lutto.
Illusoria la vittoria all’esordio contro l’Inghilterra che ha sortito fatalmente un effetto boomerang. All’indomani di quel successo sembrava che avessimo ipotecato il Mondiale. Stampa e Tv a incensare Balotelli, autore del gol vittoria, titoli roboanti a sottolineare il grande esordio, Prandelli che parlava di impresa epica quasi avessimo battuto i padroni di casa del Brasile. Dieci giorni dopo, invece, ci siamo ridestati dal sogno piombando nell’amara realtà. E così è calato il sipario sull’ennesimo, deludente Mondiale.
Era già successo nel 2010 quando, Campioni del mondo in carica, fu la Slovacchia a cancellarci dalla fase a gironi. Due anni dopo (2012) il parziale riscatto agli Europei culminato con la memorabile lezione di spagnolo in finale. Due eliminazioni consecutive, precoci e inattese, che ci riportano indietro di mezzo secolo (‘62 e ‘66). La squadra azzurra, uscendo di scena, ha toccato così uno dei punti più bassi della sua storia. Quattro anni fa era stato il Sudafrica, oggi è stato il Brasile fatale a Pirlo e compagni puniti, nella gara verità, anche da un arbitraggio ostile (ancora un Moreno sulla nostra strada): rosso eccessivo a Marchisio nel momento topico del match, morso velenoso dello spauracchio Suarez ai danni di Chiellini non sanzionato dall’ineffabile fischietto messicano.
Il preludio alla rete di Godin che, complice una difesa discutibile, spazzava via i residui sogni di gloria dei nostri cui bastava il pari per strappare il visto per gli ottavi. Una gara insulsa, novanta minuti che passeranno tristemente alla storia solo per un’ insidiosa punizione del solito Pirlo (l’unico a salvarsi dal naufragio generale) e una sbilenca girata al volo del redivivo Immobile: il capocannoniere granata, invocato a furor di popolo dopo la disfatta contro Costarica, non ha lasciato tracce davanti, abbandonato al suo destino. Prandelli ha provato a cambiare togliendo lo spento Balotelli (scelta coraggiosa) per un volitivo Parolo, ma il destino poco dopo si sarebbe accanito su Marchisio. Nemmeno l’ingresso dell’altro protagonista tanto atteso, Cassano, ha mutato il corso degli eventi.
L’arbitro c’entra però poco, trincerarsi dietro a scuse risibili sarebbe un esercizio di banale retorica. Non facciamo i soliti italiani e riconosciamolo: siamo usciti meritatamente. Quando in due partite, del resto, si collezionano pochi tiri verso la porta avversaria e si finisce con i crampi (vedi Immobile e Verratti), quando la manovra è compassata con le corsie esterne praticamente inesistenti e non si intravede lo straccio di un gioco (esordio escluso), è giusto fare le valigie e tornare a casa. Alcuni hanno invocato, a parziale giustificazione, il caldo brasiliano. Sarebbe stato lui a fiaccare i muscoli dei nostri atleti, obnubilandone testa e cuore. Altri, col senno di poi, hanno rimproverato all’ormai ex Ct la mancata convocazione di Giuseppe Rossi, non arruolato per il suo lungo infortunio.
Corsi e ricorsi storici, siamo alle solite. Il popolo calcistico si divide, anche questo è il bello (si fa per dire) del calcio. Tutti soloni, tutti allenatori, tutti esperti di football. Al di là delle sentenze postume, il nostro Mondiale è stato fallimentare. A certificarlo restano i numeri, sconfortanti: tre reti subite in altrettante gare a fronte di soli due gol fatti. Troppo poco se si tiene conto del valore complessivo di un girone francamente alla nostra portata. Alla vigilia nemmeno il tifoso più pessimista avrebbe prefigurato un epilogo del genere. Una squadra senza capo né coda, una creatura acefala tenuta in vita dai veterani storici (Buffon, Pirlo e De Rossi) e imbottita di giovani promettenti, alcuni dei quali hanno steccato (De Sciglio, Insigne e Paletta).
Sono riaffiorati gli antichi difetti di sempre: scarsa propensione a offendere, mancanza di coraggio nei momenti clou, difesa intransigente del risultato. Atteggiamento figlio anche di una qualità tecnica modesta con Pirlo (non più un ragazzino…) costretto da solo a cantare e portare la croce. Le cause del tracollo sono da ricercarsi soprattutto in una pochezza tecnica che – negli ultimi anni – ha rappresentato un po’ il leit motiv del calcio italiano. Fin quando l’esterofilia continuerà a nuocere ai nostri vivai (ai quali ci sarebbe molto da attingere, vedi le sorprese Verratti e Darmian), le cose non cambieranno. Un esempio su tutti: la Juve, che ha trionfato a spasso in Italia con i Vidal, i Tevez e i Pogba, in Europa ha pagato ancora dazio. Il nostro calcio non suscita più il fascino di una volta, i grandi campioni esitano a scegliere l’Italia, un tempo meta privilegiata. E’ il fallimento totale di un movimento calcistico, l’anno zero del pallone. L’Italia ha saputo sempre (o quasi) rialzarsi dalla macerie, ma la sensazione è che stavolta sarà più dura di quanto si pensi.
Libero Marino