“Dove, se non ad Aquino?”. Esattamente mezzo secolo fa, Papa Paolo VI si presentò così alla città di San Tommaso in occasione della sua storica visita del 14 settembre del 1974.  Parole che, a distanza di dieci lustri, riecheggiano attualissime e spiegano bene il senso della mostra di Roberto Almagno che, domenica 30 giugno (ore 11), sarà inaugurata nella bella cornice della casa di San Tommaso, nel cuore del borgo medievale aquinate. La mostra “Roberto Almagno e l’Antico, Opere giovanili”, organizzata dalla Direzione regionale Musei nazionali Lazio  guidata da Elisabetta Scungio e dal Comune di Aquino, si inserisce nell’ambito delle celebrazioni relative al triennio tomistico.

Settant’anni compiuti lo scorso maggio, Almagno è un aquinate doc e un gigante della scultura italiana. Vive da tempo a Roma, in centro, dalle parti dell’elegante corso Trieste. Dal 2012 ha trasferito il suo studio in viale Regina Margherita, non lontano da casa sua. Le sue opere hanno fatto il giro del mondo. Il Maestro ha esportato il suo smisurato talento un po’ ovunque, riscuotendo consensi e attestati di stima inequivocabili da certa critica specializzata come Claudio Strinati, Maurizio Calvesi e Fabrizio D’Amico. Alcune sue sculture, del resto, si trovano in importanti collezioni come quella del Ministero degli Affari Esteri, dell’Ambasciata Italiana in Macedonia, dell’Istituto Italiano di Cultura di Mosca e ai Musei Vaticani. Per Almagno, che espone per la prima volta nel paese che, nel 1954, gli diede i natali, è un vero e proprio ritorno alle origini.

Singolare il suo percorso che somiglia a un crescendo rossiniano. Scandito da una continua ricerca e sperimentazione perchè l’arte, come afferma, è un continuo esplorare dove passione e ostinazione fanno rima con contaminazione. Alla scultura l’artista di origini aquinati si è dedicato fin dall’infanzia, sperimentando sempre nuovi materiali, passando dalla pietra, suo amore giovanile (risale al 1978 lo straordinario busto in pietra dedicato a San Tommaso, uno dei pezzi forti dell’imminente mostra aquinate) fino alla cenere, al fango, prima del definitivo approdo al legno. La natura, del resto, è sempre stata una sua fonte di ispirazione vitale e ineludibile.

Almagno, dunque, torna nei luoghi dove iniziarono l’incanto e la magia. L’amore virulento e precoce per l’arte sbocciò proprio nel laboratorio di famiglia che, allora, sorgeva nell’odierna piazzetta dei Conti di Aquino. Ad appena quattro anni il piccolo Roberto era già solito coadiuvare papà Giovanni e nonno Raffaele, intenti nella lavorazione del ferro, nella rudimentale e improvvisata attività di famiglia situata a pochi passi dalla loro abitazione dell’epoca di via San Costanzo.

Erano anni difficili: l’eco della Seconda guerra mondiale non si era ancora spenta in una Italia che faticosamente cercava di rialzarsi dopo le bombe e le distruzioni che non risparmiarono nemmeno il nostro territorio. E così, in quel piccolo segmento di Aquino, proprio alle spalle della vecchia cattedrale completamente rasa al suolo qualche anno prima, gli Almagno cercavano di dare un senso concreto alle giornate lavorando sodo. Il piccolo Roberto capì subito di essere un predestinato, e quella piccola attività artigianale fatta di travi, ferri e detriti, divenne – senza saperlo – la sua prima mostra (e palestra) d’arte a cielo aperto.

 

Come nasce la sua passione per l’arte e la scultura?

“Papà e nonno, entrambi fabbri, mi mettevano davanti a una manovella con cui giravo la forgia. Il contatto con  il fuoco, il ferro e i carboni ardenti c’è stato praticamente subito. Mi mettevo seduto su un piccolo tronchetto e, con un martello a testa tonda, cercavo di triturare i pezzi di carbone: spesso succedeva che mi procuravo delle piccole ferite alle mani  e, piangendo, scappavo da mio nonno, il quale mi rincuorava così: “Non è niente, Roberto, stai tranquillo, in quella ferita entra l’arte”. Una frase che mi avrebbe sempre accompagnato durante  tutto il mio percorso…

Mi racconti…

“Dopo la licenza media, a quattordici anni, ero chiamato a scrivere il mio futuro. Mio padre voleva che mi iscrivessi a Ragioneria o all’Istituto per Geometri, nella vicina Cassino, come fecero tanti miei coetanei. Io, invece, volevo a tutti i costi frequentare una scuola d’arte, e la più vicina si trovava a Roma…

E che cosa accadde?

“I mezzi economici della mia famiglia erano modesti. Affittare un appartamento nella Capitale era impensabile. Mio padre, alla fine, riuscì ad accontentarmi pagandomi un abbonamento annuale che mi permetteva di viaggiare tutti i giorni, in treno, dalla vecchia stazione di Aquino fino a Roma Termini. L’amore per l’arte mi ha fatto fare sacrifici enormi. Ogni mattina mi alzavo alle 3 per prendere il primo treno per Roma che partiva circa un’ora dopo, insieme a tanti pendolari. Al ritorno studiavo sul treno e arrivavo a casa stanchissimo, ma per fortuna il supplizio durò solo un anno…”

Continui pure…

“Iniziai così a frequentare l’Istituto d’arte di via Conte Verde, dalle parti di San Giovanni, dove insegnavano i più grandi artisti italiani. Qui incontrai anche  il mio primo grande maestro Giuseppe Mazzullo che, pochi anni più tardi, mi fece anche frequentare la scuola libera del nudo. Le cose, nel frattempo, cambiarono in meglio dal punto di vista logistico. Niente più treno: fui infatti ospitato, dal secondo anno di corso, da mia zia Libera, sorella di mia madre, che si trasferì a Roma in zona Tuscolana. Fu provvidenziale per la mia permanenza a Roma”.

Le prime esperienze importanti?

“Dopo il triennio all’Istituto d’arte, mi iscrissi all’Accademia delle Belle Arti di via di Ripetta, dove incontrai un altro grandissimo maestro come Pericle Fazzini, decisivo per la mia formazione. Un giorno  si presentarono delle persone delle Ferrovie dello Stato, appartenenti all’ONARMO, che mi incaricarono di realizzare una natività, alla quale lavorai giorno e notte. La mia opera  fu così esposta durante tutto il periodo natalizio nell’atrio della stazione Termini. Ricordo che la gente si fermava incuriosita davanti alla mia scultura, nei pressi della quale lasciava anche delle monete. Tutto questo accadeva nel 1970, avevo solo sedici anni…”

 

Le sue soddisfazioni più belle?

“Sono state diverse. Oltre a quella appena raccontatale, che rappresenta l’incipit del mio lungo percorso artistico, non posso dimenticare la X Quadriennale di Roma del 1975 e, l’anno successivo, la mia prima mostra personale di Livorno. Un altro momento emozionante si registrò alcuni anni più tardi, nel 1992, quando una gallerista del calibro di Carla Panicali mi aprì le porte della prestigiosa Galleria dell’isola di Roma, a via Gregoriana, a due passi da piazza di Spagna. Nel 1994 vinsi anche il “Premio Michetti” con la mia scultura Malena. E poi Sciamare…

 

Mi spieghi…

“La mostra più bella e imponente. Ebbi l’enorme onore di esporre le mie sculture, nella primavera del 2006, nella Sala Regia di Palazzo Venezia. Per la prima volta a un artista vivente era concesso il privilegio di presentare una mostra tra le pareti del Bramante. Non stavo nella pelle, ricordo la fiaccolata che fecero a piazza Venezia il giorno dell’inaugurazione. Proposi il tema dello sciame, la scultura intesa come un volo, un esodo, la materia che si solleva da terra e vola via, attraverso dei valori semplici. La mia idea d’arte fu molto apprezzata. Un’esperienza meravigliosa”.

 

Come e quando avvenne il passaggio dalla pietra al legno?

“All’alba degli anni Ottanta fui pervaso da una forte inquietudine, ero alla ricerca di una mia cifra stilistica, volevo affrancarmi dai miei maestri per percorrere da solo il mio percorso artistico. Il passaggio al legno, materiale molto vivo e nobile, fu scandito da un lungo periodo di crisi (durante il quale rimasi per molto tempo senza esporre), segnato da ancoraggi al mondo rurale e contadino, alle tradizioni oceaniche e africane, con assemblaggi di vari materiali poveri come la paglia e il fango fino all’approdo alla scultura segnica”.

 

Lei spesso ha dichiarato che la scultura è leggerezza: che intende dire?

“Il peso non c’entra. La scultura ha un valore poetico intrinseco, è spiritualità, e non solo materia, come mi insegnò il mio maestro Fazzini. La scultura oggetto non mi interessa, a me affascina il precario, tutto ciò che è in bilico, tema che proposi nella già menzionata opera Sciamare.”

 

Qual è lo stato di salute della nostra scultura?

“Mancano, a mio avviso, la passione e il sacrificio. Non c’è ricerca della verità, è venuta meno quella passione genuina e autentica per la materia, e i social, da questo punto di vista, non aiutano. Magari il talento non difetta, ma i giovani di oggi hanno troppa frenesia, non amano mettersi in discussione, vogliono affermarsi subito, non hanno quella fede profonda…”

 

Per la prima volta sarà protagonista nella sua Aquino…

“Una bella emozione. Torno nel mio borgo magico dove, circa settant’anni fa, tutto ebbe inizio. Per la prima volta esporrò quattro opere che appartengono al mio primo periodo, quello relativo alla scultura in pietra di indirizzo figurativo:  un busto in pietra raffigurante San Tommaso d’Aquino (1978), La pietra, omaggio a Piero della Francesca (1979), La mano (pietra, bronzo e ferro del 1979), e la pietra La gatta (1977-1978). Fino al 29 settembre vi aspetto nella mia Aquino…”

Libero Marino