E’ tornato a casa, per ritirarsi dal mondo. Vaga, come un fantasma, per le strade di Aquino, rassegnato a non riconoscere più la sua città. E’ per questo forse che esce solo di sera, appena dopo il tramonto, quando ogni cosa, ogni volto, è penombra. E questa luce che sta per diventare buio è quanto di più simile ci sia alla sua anima, alle sue ossessioni, alle paure, a tutto ciò che in fondo è stato il senso della sua vita. L’idea di aver sbagliato il tempo. Troppo tardi, fuori dalla gravità dei grandi uomini, sbagliato, non riconosciuto, costretto a sopravviere da mediocre tra i mediocri, senza sentirsi tale, e proprio per questo ridotto a sentirsi profondamente ridicolo. Il suo nome è Decimo Giunio Giovenale.
Seguitelo questo fantasma, scoprirete che non è mai stato così attuale, così moderno, potrebbe essere tranquillamente uno di noi, con i suoi vizi, le sue disillusioni, frustrato da un orizzonte senza speranze, imbrigliato da una società che è un regno di burocrazia e immobilismo. Giovenale è lo spettro che raccoglie le nostre paure.
Giovenale che guarda al passato, Giovenale il cliens, costretto a fare i conti con il potere, indeciso se inginocchiarsi e sottomettersi. Giovenale che si indigna, che risponde alla corruzione del potere e all’umiliazione di mangiare gli avanzi delle feste dei ricchi con l’invettiva, lui emarginato, fuori casta, invisibile, senza futuro. Giovenale il reazionario, con i rimpianti di un passato perduto, senza figure morali da cui lasciarsi affascinare, ma costretto a sopravvivere nel fango della corruzione, nel cannibalismo dei padri che mangiano i figli, dei vecchi senza dignità voraci nel prendersi perfino gli ultimi avanzi della grande abbuffata, senza lasciare nulla ai posteri. Giovenale che sputa in faccia a Domiziano, ora che finalmente è morto, tutto il suo disprezzo. Può un imperatore riunire il Senato per decidere come va cucinato un pesce, un rombo, che gli è stato appena regalato? Certo che può, lo fa ancora adesso, in quell’impero burocratico che è l’Europa.
Quest’uomo è un moralista. Non ci sono dubbi. Ma lo è perché esasperato, perché non ce la fa più, perché è stanco, perché suo padre gli ha dato un’educazione per navigare in questi tempi senza fortuna. E’ quello che scrive nella quattordicesima satira del libro quinto, quando rimpiange un tempo dove la dignità non era un peso, dove la cultura non era un marchio d’infamia, dove non si veniva derisi se non si sapeva stare al gioco delle clientele. Ora che contano solo i soldi: “Nessuno ti chiede da dove viene il denaro, purché tu ne abbia”.
Giovenale odia Roma, odia questa cloaca di masse che strisciano all’ombra del potere. E lui si sente un viandante con le tasche vuote sotto il naso dei ladri. Ma cosa ancora si può rubare a chi è già povero? Questo è l’uomo a cui Gadda per tutta la sua vita si è sentito più vicino. L’etica del Pasticciaccio è nelle satire di un aquinate vissuto in una Roma senza Mecenate.
Non è un tipo simpatico. E’ diventato troppo presto un vecchio rancoroso. E’ greve, qualcuno dice ottuso, fastidioso quando non riconosce la parità dei sessi o quando si lamenta dei troppi omosessuali, ormai un gruppo di pressione troppo potente, troppo diffuso, troppo protetto. Giovenale forse omosessuale senza coraggio. Non verrà mai perdonato per questo.
Non verrà perdonato per la sua misogenia. Per quelle femmine che non sono più matrone. Anche se lui ti direbbe che non è vero. Non odia tutte le donne. Solo le nobili puttane. La loro arroganza, la loro crudeltà, i loro pettegolezzi, il lusso, la perfidia, la voglia di arrivare al potere senza scrupoli, pronte a scannarsi tra di loro pur di sentirsi al centro dell’impero. Donne senza dignità. Donne che bevono quanto e più dei peggiori ubriaconi. “Di che più si cura la passione dei sensi eccitata dal vino? Non sa più distinguere l’inguine dalla bocca, colei che nel colmo della notte morde grandi ostriche, quando spumeggiano i profumi profusi nel puro Falerno, quando si tracanna dalle conchiglie e il soffitto ondeggia nell’ebbrezza e sulla mensa paiono doppie le lucerne. Dubita ora della smorfia con cui Tullia assorbe l’aria, o di quel che dice Maura malfamata all’altra Maura, sua sorella di latte, quando passano davanti all’altare dell’antica Pudicizia. Di notte proprio qui che fan fermare le loro lettighe, e smaniose d’orinare, inondano la faccia della dea coi loro lunghi zampilli, e si cavalcano a vicenda, e s’agitano l’una addosso all’altra sotto il lume della luna. Poi ritornano a casa: e tu, al mattino, quando ti rechi a visitare gli amici potenti, calpesti l’urina di tua moglie!”.
Queste sono le donne che Giovenale fustiga, dedicando ai loro costumi seicentosseantuno versi, l’intero secondo libro delle sue satire. E su tutte disprezza lei, la donna dell’imperatore, la zoccola di Claudio, Messalina. Sposa di puttana di un imperatore che non vuol vedere. Messalina che vince la sua gara con una famosa cortigiana collezionando 25 amanti in un solo giorno, Messalina che, truccata e mascherata, lascia nottetempo la sua regale dimora per raggiungere il quartiere malfamato della Suburra e prostituirsi con il nome d’arte di Licisca.
O infine Giovenale innamorato deluso e disilluso.
“Non troverai nessuna disposta a risparmiare chi l’ama; anche se t’amerà, godrà di tormentarti e spogliarti. La moglie è tanto meno utile quanto più il marito le si mostrerà buono e desiderabile”.
Questo è il vecchio che ora percorre senza direzione le strade di Aquino. Non chiedete a lui la risposta alle vostre paure, perché sono duemila anni che rincorre un passato ogni volta perduto.
Vittorio Macioce