Giacomo Mazzaroppi e l’Aquino calcio, un amore lungo oltre mezzo secolo. Classe 1933, ottant’anni compiuti lo scorso luglio e portati egregiamente, Giacomo (ad Aquino per tutti” Mimmino”) rappresenta una istituzione nel panorama calcistico aquinate. Secondo rampollo dell’indimenticato ex sindaco Nicola, il veterano aquinate ha scritto pagine esaltanti del calcio bianconero per almeno due lustri. Erano gli anni del dopoguerra, quando il nostro stivale si rialzava faticosamente dopo le brutture del secondo conflitto mondiale. Congiuntura delicatissima durante la quale il pallone era visto come unica occasione di riscatto sociale.
Il calcio ad Aquino avrebbe attecchito più tardi rispetto ai centri limitrofi come la vicina Pontecorvo, che vide Giacomo, appena quattordicenne, mietere i primi allori. Era l’anno 1947 e l’allora tecnico Gricoli, un milanese trapiantato nella città fluviale, mise gli occhi sul centrale di difesa aquinate che, a dispetto della giovane età, comandava già il reparto arretrato con la personalità di un veterano. Una palestra importante condivisa con altri aquinati doc come il fratello maggiore Umberto, Venanzio Blasi e Mario Risi, altri interpreti di quella squadra straordinaria che, qualche anno più tardi (fine anni 50), avrebbe dominato la scena calcistica ciociara sfiorando la quarta serie, la nostra attuale Lega Pro.
Mazzaroppi mi riceve nella sua casa, un villino grazioso in zona aeroporto, dove si è trasferito da tempo circondato dall’amorevole affetto (assai corrisposto) del genero Enzo, la figlia Libera e il nipote Onorio cui ha trasmesso la passione per la sua squadra di sempre: la Juventus. Nemmeno il tempo di accomodarmi in sala, che subito mi sottopone una raccolta di foto custodite gelosamente, come fossero reliquie. Quasi tutte lo ritraggono con la casacca aquinate e ne mostrano il fisico asciutto, lo sguardo fiero e orgoglioso di chi si è sempre battuto per i colori della propria città, senza mai risparmiarsi.
L’ex difensore aquinate è una cornucopia di aneddoti che snocciola con sorprendente e chirurgica precisione, nemmeno fossero accaduti ieri. Sa far vibrare bene la corda malinconica, temperandola con quella ironica: ma è un’ironia composta, che non traligna mai in sarcasmo. Con un occhio piange e fa piangere, con l’altro ride, e fa ridere, o sorridere. Quegli occhi ancora vigili, testimoni di tante battaglie dentro e fuori dal rettangolo di gioco.
Quando nacque la tua passione per il football?
“Ero giovanissimo e insieme ai miei compagni cercavamo, tra mille difficoltà, di dare vita al movimento calcistico qui ad Aquino. La guerra aveva sortito effetti devastanti, ovunque aleggiava un’ atmosfera surreale. La mancanza di mezzi economici ci fece desistere dal progetto e cercammo fortuna altrove”.
Dove precisamente?
“Tentammo la gloria a Pontecorvo, dove il calcio già aveva preso piede da qualche anno. Il sottoscritto, insieme ad altri tre aquinati, sostenne un provino alla presenza di esperti del settore. L’approccio non fu dei migliori, mio fratello Umberto ci invitò caldamente a lasciare il campo convinto che ci avrebbero bocciati, invece…”
Che cosa accadde?
Un tizio scortato dal grande tecnico Gricoli si avvicinò al nostro quartetto chiedendoci da dove venissimo. Poi fummo invitati nel salotto buono della città, l’allora bar Prata, dove consumammo delle bibite, prima di ricevere la notizia tanto attesa: eravamo ufficialmente dei giocatori del Pontecorvo!”.
Da lì iniziò la tua cavalcata calcistica…
“Sì, la cittadina fluviale bagnò il mio esordio in prima divisione, un campionato all’epoca molto prestigioso che annoverava i più rilevanti centri del nostro territorio. Ricordo che l’attuale “Coccarelli” era sempre pieno di gente che, mossa dalla curiosità, arrivava anche da lontano per assistere alle nostre gare. Si trattò indubbiamente di anni importanti, decisivi per la mia formazione calcistica”.
Dopo l’esordio a Pontecorvo la tua carriera che direzione prese?
“Ricordo con un pizzico di rammarico il mio provino alla Lazio consumatosi sul manto del celebre impianto della “Rondinella”, che sorgeva nell’attuale zona del Villaggio Olimpico. Un’ esperienza emozionante che, però, non fu coronata da successo. Qualche dirigente biancoceleste fu anche prodigo di complimenti che lusingarono me e mio padre, il quale ebbe la pazienza di accompagnarmi nella capitale nonostante non fosse un grande amante del calcio. Era, se non vado errato, il 1950”.
Di lì a poco sarebbe iniziata l’avventura con la maglia del tuo Aquino, che ricordi hai?
“Una squadra straordinaria, un gruppo encomiabile impreziosito da alcuni “stranieri” che portavo da Frosinone e arruolatisi in Aeronautica come me: i toscani Ciabattini, Greincel e Renzi, tre talenti puri, valore aggiunto di quella splendido collettivo guidato da Sdoia e presieduto da Rogacien. Ragazzi d’ oro che spesso ospitavo volentieri ad Aquino, a spese mie. La formazione aquinate più forte di sempre ribattezzata dalla stampa ” l’ Aquino dei record”. La sicurezza di Turriziani tra i pali, la solidità difensiva del sottoscritto, la classe di mio fratello Umberto e lo straordinario fiuto del gol di Mario Risi. Fummo protagonisti per alcuni anni nel torneo di Promozione che valeva tranquillamente la Lega Pro di oggi”.
Eri presente all’inaugurazione del campo di Aquino: ripercorriamo brevemente quella famosa giornata…
“Sì, era il maggio del ’53 e in paese non si parlava di altro. Un evento confezionato nei minimi dettagli dalle nostre autorità politiche del tempo. Alla cerimonia di inaugurazione intervennero personalità di rango come Andreotti, Fanelli e Onesti. La gara amichevole vide la Lazio imporsi per cinque reti a due sull’ Annunziata Ceccano. Io non giocai, ma ebbi l’onore di farmi immortalare accanto al mitico portiere laziale Sentimenti Quarto”.
Dovendo fare degli accostamenti, in quale giocatore di oggi ti rivedi?
“Ero un lottatore nato, la partita per me era sacra, la vivevo alla stregua di una funzione religiosa. Forse il calciatore in cui mi specchio di più era Gennaro Gattuso per la incredibile generosità con cui si applicava sul rettangolo di gioco. Non ero dotatissimo dal punto di vista tecnico, ma rappresentavo una pedina fondamentale in chiave difensiva. Mi allenavo con grande serietà, assistito in modo certosino da mia moglie Italia, molto sensibile alla mia forma fisica. Poi ero versatile, il mister mi impiegava talvolta anche come terzino”.
Un episodio bizzarro di quel grandissimo periodo?
“Ce ne sono davvero tanti. Su tutti, la gara dell’ultima giornata di campionato contro il grande Sora di Basile e compagni che ci contendevano il primato. Alla vigilia della sfida decisiva per il passaggio in quarta serie, un contingente volsco piombò ad Aquino. Io ero squalificato e i sorani fecero pressione perché giocassi la partita nel tentativo di ottenere la vittoria a tavolino. Della “combine” sapevamo solo io e mio fratello Umberto. La domenica successiva, contravvenendo ai patti, non giocai e mi sistemai dietro la rete, confondendomi tra la folla che assiepava il nostro “Comunale”. I miei compagni partirono forte sfiorando a più riprese il gol del vantaggio. Più di qualche tifoso si accorse del mio strano atteggiamento volto a scoraggiare la mia squadra e la manfrina fu chiara a tutti. A spuntarla, per la cronaca, fu il Sora grazie ad una rete-capolavoro di Bruni nel finale. Il gol scatenò la furia dei tifosi aquinati che volevano picchiarci… “
L’aneddoto più singolare?
“Mi viene in mente un episodio particolare che testimonia il mio forte attaccamento ai colori aquinati. Ero reduce dal viaggio di nozze con mia moglie (ottobre 1959), eravamo stati ad Ancona e al ritorno accusai un’incipiente stato febbrile. Non ero nelle condizioni ideali per potere scendere in campo, ma la domenica successiva spiazzai tutti presentandomi regolarmente al “Comunale”. Giocai una gara senza sbavature nella quale vincemmo 2-0 piegando il temibile Gaeta. Riscattammo così la sconfitta della settimana precedente (5-2) a Terracina, dove i miei compagni arrivarono rimaneggiatissimi per via del mio matrimonio. Fui eletto migliore giocatore della sfida e vinsi anche un oggetto d’ oro messo in palio dal nostro presidente Rogacien”.
Oltre all’Aquino, quali altre maglie hai indossato nella tua lunga carriera?
“Lasciai l’Aquino per accasarmi al Ferentino di Palombo, altra formazione di assoluto rilievo per l’epoca. Poi le brevi esperienze a Macerata, Monterotondo e Latina, per fare poi ritorno a Frosinone, dove mi cimentavo nei tornei militari. Ho cessato l’attività ufficialmente nel ’72, a 39 anni, per poi disputare alcuni tornei rionali del paese”.
Da allora hai mai pensato di allenare l’Aquino?
“Sinceramente provai a tornare nel giro. Erano gli inizi degli anni Ottanta quando mi proposero di guidare il settore giovanile. Avvertii subito un senso di inadeguatezza, capii presto che quel mondo fosse cambiato, in peggio. I giovani di oggi purtroppo difettano dal punto di vista dell’ educazione, la disciplina e il rispetto di un tempo sono venute meno, non mi riconosco più in questo mondo”.
Che giudizio hai, in conclusione, della squadra aquinate di oggi?
“Non vorrei apparire presuntuoso, ma non baratterei i miei anni con quelli di oggi. Vedere squadre anonime espugnare il nostro glorioso “Comunale” mi dà enormemente fastidio, sono a dir poco nauseato. Quel catino, una volta inespugnabile, oggi è diventato terra di conquista. E’ da tempo che non metto piede al campo al posto del quale, mi auguro, costruiscano in futuro un bella piazza con tanto verde intorno”.
Libero Marino